14.8.11

Flores

Vi hace unos días en quién sabe qué tedeté accesoria una serie norteamericana de juicios y abogados cuyo título desconozco, una variante procesal de la inagotable ficción del crimen. En el episodio que me cupo en suerte se descubre al asesino por un (digamos) descuido insólito: haber llevado flores a la tumba de la víctima (una mujer) cada domingo durante diecisiete años. Adquieren carácter probatorio algunos añadidos funcionales: algunas interrupciones penitenciarias leves, decirse marido ante el florista siendo sólo vecino, etcétera. Ahora, varado en el puente de agosto, al leer «Esto se debe a un sentido del decoro nada incongruente en un hombre [Joe DiMaggio] que de igual forma, tras el fallecimiento de Marilyn Monroe, ordenó que hubiera flores frescas en su tumba “siempre”» (Gay Talese, ‘Retratos y encuentros’, Alfaguara, pág. 107; las comillas de «siempre» son de Talese), toda mi atención se desvía enseguida de las flores y subraya en rojo y negro la palabra «ordenó». Son, sin duda, claramente equiparables, y de significado paralelo, me digo, los diecisiete años de la serie con el «siempre» de DiMaggio, pero también tal vez ambos sentidos favorables queden eclipsados por las palabras o los hechos, o por la necesidad, y así como los remordimientos de amor y culpa son un recurso de la ficción policial, así también el «ordenó» anula con el aroma de su poderío la no tan perentoria voluntad del «siempre».

12.8.11

Il gesto

Un giorno in cui la principessa passò in carrozza per un villaggio di frontiera, incontrò sul ciglio della strada un giovane di bell’aspetto e d’agile portamento che, vedendola, rimase come ipnotizzato. Allora la principessa, guardandolo fisso negli occhi, gli sorrise e fece un gesto ambiguo. Pazzo d’allegria, il giovane non perse tempo a diffondere l’accaduto in tutto il villaggio e se ne vantò davanti agli amici. A tutti, cominciando dai genitori, che gli consigliavano di non sognare ad occhi aperti basandosi soltanto su un’attitudine gentile della principessa, per finire con gli amici, che lo canzonavano per il suo entusiasmo, diceva che si sarebbe avviato ben presto verso il palazzo e lì avrebbe cercato di mettersi in mostra davanti alla principessa, perché era sicuro che lei l’avrebbe riconosciuto e, una volta riconsciuto, lui avrebbe fatto tutto il possibile per entrare al servizio del re e con il suo valore conquistare per sempre il dolce cuore della principessa. All’inizio gli amici si prendevano gioco di lui e gli reggevano la corda nello slancio, ma vedendolo deciso a mettere in pratica il suo capriccio, si rivolsero agli anziani del villaggio e li pregarono di dissuaderlo da quei propisiti suicidi. E infatti un giorno gli anziani del villaggio chiamarono il giovane a comparire davanti a loro e gli raccontarono una vecchia storia. In una certa occasione, gli dissero, capitò che la principessa della nostra gioventù passasse casualmente per questo villaggio, dove incontrò un giovane sul ciglio della strada. La principessa, che era cortese ed educata, gli sorrise e gli fece un gesto ambiguo. Il giovane impazzì d’allegria e si mise subito in cammino per presentarsi a palazzo e rendersi visibile agli occhi della principessa, nella speranza di venir riconosciuto da lei e offrirle il suo cuore. Arrivò, quindi, nei pressi del palazzo e si mise a richiamare l’attenzione di chiunque gli venisse a tiro con tanto impeto che il suo comportamento risultò subito sospettoso per tutti. La dichiarazione d’amore che il giovane contadino bandiva ai quattro venti nei mercati e nelle taverne, vantandosi che la principessa gli aveva fatto un giorno un gesto, non tardò a giungere alle orecchie della principessa, la quale raccontò al re cosa stava accadendo. Il re ordinò di arrestare il contadino e portarlo alla sua presenza per ascoltare dalle sue labbra quel che gli avevano già riferito sia la principessa che le sue spie e, non potendo permettere che un villano mettesse in pericolo il buon nome della principessa, lo fece decapitare, affinché il castigo servisse da esempio e da lezione. La sua testa fu infilzata in una picca e rimase esposta molto a lungo sul patibolo, perché nessuno da allora in poi s’azzardasse più a minacciare l’intoccabile virtù della principessa. La voce corse per il circondario e arrivò molta gente dai dintorni per vedere la testa del contadino esposta all’oltraggio del tempo e degli avvoltoi. Gli stessi anziani, che allora erano giovani, quando lo seppero, percorsero il lungo cammino che dal villaggio conduce al palazzo per contemplare il teschio del loro amico. Il giovane ascoltò l’inizio della storia con volto superbo e sguardo arrogante, perché era convinto di essere stato indicato dagli occhi della principessa, però man mano che il racconto avanzava divenne sempre più abbattuto e triste. Quando sentì il finale, decise che non avrebbe patito la stessa sorte del giovane di quella storia, ma decise anche che, dopo essersi coperto di ridicolo davanti ai genitori e agli amici e davanti a tutto il villaggio, doveva abbandonare il regno. Per remoto che potesse sembrare, non poteva sottoporsi al rischio di incontrare di nuovo la principessa, rivedendo il suo sorriso e, forse, il suo gesto ambiguo. Sicché abbandonò il villaggio, fuggendo senza meta, e si diresse verso territori lontani. Ma la notizia della sua fuga non passò inavvertita e si sparse fuori dal villaggio. Nei mercati e nelle taverne si diceva che un giovane contadino aveva lasciato il regno per paura di incontrare la principessa e soccombere di fronte al suo sorriso o all’ambiguità dei suoi gesti. Le spie del re udirono quei discorsi e li riferirono a palazzo. Quando la principessa ebbe notizia di quell’affronto, ne fu enormemente indispettita, perché con un gesto d’amore aveva posto in fuga il giovane contadino. Indignata, raccontò i propri dispiaceri al re, che ne rimase amaramente offeso. Mandò pertanto le sue guardie a inseguire, raggiungere e arrestare il giovane contadino, compito che eseguirono in soli sette giorni. Il giovane fu condotto alla presenza del re per raccontare di nuovo, da reo, ciò che aveva raccontato con lieto entusiasmo ai genitori, agli amici e agli anziani del villaggio. E poiché non si può macchiare invano il nome di una principessa, il re lo fece decapitare e ordinò che la sua testa rimanesse esposta sul patibolo per giorni e giorni. La gente dei dintorni accorse un’altra volta al richiamo irresistibile dell’esecuzione capitale. Anche i giovani del villaggio di frontiera si misero in cammino per contemplare con dolore la testa del loro amico e comprendere, sotto il segno della morte, l’antico e saggio proverbio del regno secondo il quale i gesti delle principesse sono sempre indecifrabili.

(Traduzione di Danilo Manera)

8.8.11

Два царства

Durante la lectura de ‘Las cosas que llevaban los hombres que lucharon’, de Tim O’Brian, a do llegué atraído por el título (la perspectiva semántica, el alejandrino, la rítmica simetría de los hemistiquios: oóoooóo oóoooóo) y la estrategia con vuelta de tuerca del editor, reparé casualmente en el título de la edición original: ‘The Things They Carried’. En fin, me dije: nada que objetar, todo sea por la métrica de los mercados, tampoco Sunset Boulevard era el crepúsculo de los dioses, etcétera. Pero he aquí que ahora caigo sobre ‘Érase una vez una mujer que quería matar al bebé de su vecina’, de Liudmila Petrushévskaia, y me digo: Menudo (!!) titulito. De modo que voy al título original de los créditos, do a duras penas leo: ‘Два царства (Dva tsarstva)’, que, según traductor en red con escritura fonética activa, significa tan sólo, únicamente —¡qué ingenuidad! ¡qué despilfarro!—, ‘Dos reinos’. En fin, me digo: Superlative Sunset Blvd. Y con incredulidad risueña —un asesino anda suelto, alguien ha matado a alguien— evoco la figura del humorista de Chamberí.

3.8.11

Cadaqué

Cada que oigo «Lo que de verdad importa a los españoles» y sus rapaces variantes de tribuna se me acumulan las aposiciones —muletilla política, parasitaria locución, réplica vacua, comodín de evasivas, quiebro retórico, casquivana argucia, etcetérico tópico— y las incomodidades que alimenta tanta ligereza, tanta sofistería y tanta engañanza: puesto que la verdad sociológica carece de existencia, no sé a qué viene tanto portavoz ni tanto intérprete de la no menos inexistente españolía.

2.8.11

Estilemas

Desde hace tiempo he sentido una perniciosa atracción por las fórmulas retóricas, los estilemas, las patentes de autor, hasta el punto de que, a veces, cuando me obsesiono con un procedimiento concreto, no puedo continuar la lectura ni abandonar el párrafo sin dejar una marca de reconocimiento y de consuelo. Hace tiempo, por ejemplo, un reseñista justiciero censuró a Ferlosio y aun negó todo valor a la novela por poner en boca del narrador de ‘El testimonio de Yarfoz’ (§XLI) las siguientes palabras: «En adelante contaré varias cosas en las cuales no estuve presente y que, por tanto, he tenido que ir recomponiendo a partir de diversos testimonios», fórmula, por lo demás, tan vieja que yo mismo la había subrayado en ‘Los nueve libros de la historia’, de Herodoto (‘Euterpe’, §99): «Hasta aquí todo cuando he dicho es mi observación, mi opinión y mi investigación; en adelante voy a contar los relatos egipcios tal como los oí, aunque también les agregaré algo de mi observación», pero que, en su descalificación, sirvió para añadir un ingrediente más a mis manías cursivas. Así que ayer mismo no pude pasar por alto la siguiente «excusatio»: «Hasta ahora todo lo que te he contado es experiencia personal, la pura verdad, pero hay otras cosas que han llegado a mí de segunda mano. De tercera, en realidad», de Tim O’Brian, ‘Las cosas que llevaban los hombres que lucharon’ (Anagrama, pág. 130: demasiado artificio retórico entorpeciendo el brillo de «la pura verdad» y su propósito moral) ni dejar de pensar que, en definitiva, toda narración, al margen de la categoría del narrador y de su tramposa voluntad, recompone testimonios de segunda mano, o de tercera, y los sazona con la propia observación.

1.8.11

Tesero

Hay duendes, no cabe duda. Entre otras acepciones, como sustantivo, «teso» es, para el drae, «colina baja que tiene alguna extensión llana en la cima» y «cima de un monte», para María Moliner, mas ningún «tesero» deriva de ese «teso». Tal circunstancia léxica plantea dos enigmas irresolubles si no se cuenta —reus ex machina— con las argucias y diversiones de los dioses, a saber: que (uno) se abra un libro al azar por la página 65 y los ojos vayan a caer incrédulos, a saber por la fuerza de qué travieso imán, en la última palabra de la línea 14 sobre un insólito «tesero» y que (dos) tanto en archivos .doc y .pdf como en pruebas qxp se lea «tesoro» sin equívoco posible ni ambigüedad oculta. Contra los duendes, pues, me digo, tesón y perseverancia.